"Gli oppioidi sono fondamentali per trattare il dolore cronico non oncologico, che coinvolge circa un quarto della popolazione europea. Sia i medici specialisti che i medici di medicina generale hanno a disposizione questi farmaci, che sono considerati uno strumento fondamentale nel campo della terapia del dolore."
Il ruolo degli oppioidi nel trattamento del dolore cronico non oncologico è un argomento di grande attualità, considerato che un quarto circa della popolazione europea soffre di questa forma di dolore e che gli oppioidi rimangono uno degli strumenti farmacologici più importanti a disposizione del medico sia specialista che di medicina generale. Se ne è parlato anche durante l’ultimo congresso dell’AISD (Associazione Italiana per lo Studio del Dolore) durante il quale la professoressa Filomena Puntillo, dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro, ha tenuto una interessante relazione sul tema.
“La terapia del dolore cronico non può non prevedere gli oppiacei. Il dolore cronico purtroppo ha una prevalenza molto alta, le ultime pubblicazioni parlano di una percentuale del 20%, quindi un paziente su 5 ha una forma di dolore cronico e le cause più frequenti sono artrosi e lombalgia” ha precisato la prof.ssa Puntillo. Nelle donne la prevalenza è sei volte maggiore rispetto agli uomini; il sesso femminile è più incline a sviluppare sindromi o malattie che condividono una sensibilizzazione centrale e spesso anche un'eziologia immunitaria. Questa sensibilizzazione aumentata si riscontra, ad esempio, nella fibromialgia o nell’ osteoartrosi ma anche in cistiti interstiziali e altre dolori di tipo muscolo scheletrico. Almeno tre delle forme di dolore cronico (dolore lombare, dolore cervicale e dolore muscolo scheletrico) rappresentano le maggiori cause di disabilità, a cui si aggiungono i disturbi depressivi maggiori. Il dolore cronico nella vita di una persona porta a disabilità come mostra uno studio condotto proprio dalla professoressa Puntillo e da altri ricercatori italiani su pazienti che arrivavano per la prima volta in terapia del dolore e venivano sottoposti a dei test per capire il loro stato d'animo, il perché rivolgersi ad un centro di terapia del dolore.
“Erano tutti pazienti che avevano avuto un periodo più o meno lungo di dolore e mostravano aggressività, impulsività e rischio suicidario. Spesso i pazienti arrivano veramente stremati ad un centro di terapia del dolore e ciò dimostra che il dolore cronico è un fenomeno molto complesso che coinvolge fattori biologici, fisiologici, psicologici e sociali” ha spiegato la prof.ssa Puntillo. In questo senso il modello biopsico-sociale fa sì che dolore e disabilità siano dinamiche tra di loro e reciprocamente influenzate da fattori biologici, psicologici e sociali.
Classificazione del dolore
La legge 38 del 2010 finalmente ha dichiarato il dolore cronico una malattia definendo il termine appropriatezza. L’appropriatezza è la misura di quanto una scelta è adeguata all'esigenza del paziente, quindi, è una caratteristica che riguarda il singolo paziente che ha bisogno in primis di lenire il dolore ma anche di migliorare la funzione e la qualità di vita. Per tale motivo la IASP (Associazione Internazionale per lo Studio del Dolore) pochi anni fa ha emesso una nuova classificazione del dolore, ICD-11, che definisce il dolore cronico e lo distingue in due grandi categorie: il dolore primario che è il dolore ad eziologia non nota e a patogenesi anche incerta e il dolore secondario che invece è legato ad un' eziologia nota e patogenesi certa. La maggior parte dei dolori sono secondari: il dolore correlato al cancro, il dolore postchirurgico, il dolore muscolo scheletrico da osteoartrosi, il dolore viscerale, il dolore neuropatico che è collegato ad una lesione del sistema nervoso. I dolori primari sono più problematici in quanto hanno eziologia non nota e patogenesi incerta; tra questi si posiziona al primo posto la fibromialgia ma anche una serie di sindromi come il dolore pelvico cronico, le cefalee, le algie craniofacciali.
“La patogenesi del dolore primario ormai viene definita “nociplastica”, un tempo questi dolori venivano chiamati “disfunzionali” ma adesso non si usa più questo termine, si parla di dolore nociplastico, mentre il dolore secondario in genere ha una patogenesi nocicettiva o neuropatica. Quindi, il dolore secondario riguarda una stimolazione dei nocicettori o una lesione del sistema nervoso che fa partire l'impulso direttamente dalla struttura nervosa. L'anno scorso avevamo scritto una short review in cui evidenziavamo che i 2/3 dei pazienti con dolore cronico non ha un livello adeguato di trattamento del dolore perché l'approccio unimodale, con un solo farmaco (oppiaceo) difficilmente riesce a coprire tutte le problematiche, dall’analgesia alla qualità di vita” ha commentato la prof.ssa Puntillo. L’oppiaceo va inserito in un approccio multimodale per avere dei risultati migliori. In passato era l'intensità del dolore a guidare gli specialisti nella prescrizione degli oppiacei perché la scaletta dell’OMS sul dolore oncologico aveva influenzato anche l’agire sul dolore non oncologico. Gli specialisti pensavano che, se il dolore fosse stato lieve avrebbero potuto utilizzare gli anti-infiammatori non steroidei (FANS), se il dolore era moderato gli oppiacei e per il dolore forte gli oppioidi forti.
Questo atteggiamento in realtà non ha funzionato bene e nella short review a cui ha preso parte anche la prof.ssa Puntillo i ricercatori proponevamo nuovi paradigmi in quanto non è solo l'intensità del dolore che deve guidare nella scelta dell'oppiaceo o comunque nell'iniziare una terapia con oppiacei ma la patogenesi, gli aspetti psicologici, il contesto sociale in cui si trova il paziente, l'eventuale compromissione cognitiva, le comorbidità. Pertanto, i fattori che intervengono nella scelta del farmaco sono diversi. Oggi si parla di approccio di tipo biopsico-sociale al paziente con dolore cronico e il prof. Arturo Cuomo con il suo team ha proposto il “modello analgesico del trolley” cioè il dolore cronico ha bisogno di un trolley per la sua gestione che comprende sia terapie farmacologiche che terapie non farmacologiche ed eventualmente anche tecniche interventistiche. Il trolley dà l'idea della complessità perché è più capiente della 24 ore e anche della 48 ore.
Gli oppioidi e la paura americana
I farmaci agiscono o sulla sensibilizzazione periferica o sulla sensibilizzazione centrale o sulla modulazione discendente; in realtà gli oppiacei sono gli unici che agiscono a tutti e tre i livelli. Prima si pensava che gli oppiacei avessero solo un effetto centrale, con l’avanzare delle ricerche si è capito che funzionano anche in periferia, quindi, intervengono anche nella sensibilizzazione periferica. Gli antidepressivi agiscono prevalentemente sulla modulazione discendente, i gabapentinoidi sulla sensibilizzazione centrale insieme agli antagonisti del recettore NMDA tra cui c'è anche il metadone; sulla sensibilizzazione periferica agiscono prevalentemente gli anestetici locali, quelli che bloccano i canali del sodio quindi che bloccano la conduzione degli impulsi ma anche gli antidepressivi.
Nonostante gli oppiacei funzionino su tutti e tre i livelli purtroppo in America c'è stato un utilizzo non corretto, un abuso degli oppiacei a cui sono stati addebitati una serie di decessi che si sono verificati ma a seguito di un uso scorretto di tali farmaci; non erano utilizzati per il dolore cronico ma era un utilizzo da abuso e questo ha condizionato tutta la letteratura medica dal 2016 in poi e tutte le linee guida americane e canadesi. È stato fatto un terrorismo psicologico sugli oppiacei che si ritrova anche nelle linee guida CDC 2016 (aggiornate poi nel 2022) con 12 raccomandazioni in cui si precisa quando iniziare e continuare tale terapia, come selezionare il paziente, come attenzionare il rischio di abuso e soprattutto tutte le linee guida sottolineano che i trattamenti non farmacologici e non oppiacei sono quelli da preferire nel dolore cronico.
“Gli americani insistono anche sul bisogno di utilizzare formulazioni di oppiacei ad azione immediata ma in Italia abbiamo visto che a far crescere la terapia del dolore sono state proprio le formulazioni a lento rilascio che sono quelle a minor rischio di abuso e che quindi rappresentano sicuramente il trattamento ideale nel paziente” ha detto la prof.ssa Puntillo. In America vi è anche un grosso terrorismo psicologico sul dosaggio; massimo 50 mg equivalenti di morfina (senza mai andare oltre i 90 mg equivalenti) al giorno utilizzandoli il meno possibile.
Ciò che ha portato a queste restrizioni di utilizzo è stata la paura di avere ulteriori decessi correlati e anche la paura di avere cadute e fratture negli anziani.
Nelle linee guida degli interventisti americani pubblicate su Pain Physician nel 2017 viene eseguito un confronto tra i mg equivalenti di morfina usati in Canada, USA e in alcuni Paesi Europei, tra cui l’Italia. Quello che si evince dal confronto è che il dosaggio di morfina utilizzato in Italia è significativamente più basso rispetto a quello utilizzato negli Stati Uniti e nel Canada quindi in Italia i pericoli riscontrati in America sono lontani.
“L’approccio usato dagli specialisti italiani è stato sempre quello delle 4A cioè quando prescriviamo un oppiaceo dobbiamo monitorare quello che succede: 1) analgesia, quindi riduzione del dolore; 2) monitorare l'activity on daily living quindi il miglioramento della funzione; 3) monitorare gli eventi avversi; 4) monitorare gli atteggiamenti aberranti nei confronti degli oppiacei.
Quest’ultimo punto sottolinea quanto sia importante valutare il livello di rischio del singolo paziente riguardo atteggiamenti aberranti” ha aggiunto la prof.ssa Puntillo. Una linea guida dei veterani americani, altro gruppo molto attivo nella formulazione di linee guida, emana una forte raccomandazione contro l'utilizzo degli oppiacei a lungo termine nel dolore cronico raccomandando terapie alternative, di breve durata e anche l'implementazione di strategie di mitigazione del rischio, oltre a spingere verso l’utilizzo di formulazioni rapide. Questo atteggiamento di paura si ripercuote anche sul trattamento del dolore acuto spostando l’attenzione verso una terapia analgesica sempre più opioid-free anche nel post operatorio. In realtà l'importante è la comunicazione medico-paziente, definire dei goal che siano specifici, misurabili e realistici insieme al paziente; condividere le decisioni di trattamento coinvolgendolo nella scelta della terapia spiegando cosa ci si può aspettare dal trattamento con pro e contro. I veterani americani consigliano di utilizzare, per il trattamento del dolore, un atteggiamento a step che parte dal medico di famiglia fino a un team multidisciplinare soprattutto in pazienti che hanno comorbidità.
Il CDC nel 2022 ha aggiornato le linee guida anche se nella sostanza sono rimaste invariate. Nell’aggiornamento gli esperti parlano anche del dolore acuto e del dolore subacuto continuando a sottolineare che la terapia non oppioide non è molto efficace in tutti e tre i tipi di dolore e che quindi il suo utilizzo è sconsigliato. Sempre le lineeguida CDC 2022 precisano che nei casi in cui non si può fare a meno dell’oppioide, va usata una formulazione ad azione rapida nel più breve tempo possibile. Però il dolore cronico non è una problematica di breve durata ma una patologia che ha bisogno di un trattamento nel lungo periodo, quindi, è impossibile la gestione attraverso cicli di FANS, ad esempio, che hanno durate intorno ai 7 giorni. Bisogna educare i pazienti alla durata lunga delle terapie con oppiacei, mesi o anche anni. Spostandosi sul mappamondo troviamo altre indicazioni non troppo favorevoli agli oppacei; gli australiani hanno infatti una linea guida su come de-prescrivere gli oppiacei. Anche questa procedura è importante ma va valutato bene il paziente che deve interrompere questi farmaci, secondo criteri precisi; ad esempio nel paziente oncologico in fase avanzata bisogna evitare la de-prescrizione.
La de-prescrizione deve essere molto lenta, va infatti eseguita una riduzione della terapia soprattutto se il paziente è in cura con oppiaceo da molto tempo. Nel caso in cui la terapia sia iniziata da meno di tre mesi, la dose va ridotta dal 10% al 25% a settimana, se invece la terapia dura da più di 3 mesi la riduzione è sempre dal 10% al 25% ma ogni 4 settimane. Anche la titolazione iniziale è un percorso lento e graduale.
Quando e come prescrivere un oppioide
Probabilmente chi può esprimersi maggiormente su come e quando utilizzare gli oppioidi sono i terapisti del dolore in quanto vivono la problematica dolore quotidianamente con i loro pazienti. Un approccio adottato e approvato a livello globale è quello multimodale, multidisciplinare, biopsicosociale ma soprattutto personalizzato in modo che ogni paziente possa essere valutato per il suo tipo di dolore sia nella scelta della terapia che nella valutazione del rischio. Quest’ultima viene fatta secondo dei criteri di dipendenza come l’età, il sesso, il fumo, precedente dipendenza da alcol etc.
In America anche i medici di medicina generale hanno le loro linee guida sul trattamento del dolore cronico ponendo al primo posto l’attività fisica, seguita dalla terapia psicologica e trattamenti aggiuntivi a seconda della patologia sottostante (es. corticosteroidi, SNRI e FANS per osteoartrosi; FANS, manipolazione spinale, TCA e SNRI per la lombalgia cronica; gabapentinoidi, SNRI, capsaicina per dolore neuropatico) evitando gli oppiacei.
Anche le review Cochrane continuano a non trovare livelli di efficacia degli oppioidi sul dolore cronico non da cancro. Invece, una review apparsa su Lancet nel 2021 (Cohen et al) sottolinea che la prescrizione di un oppiaceo deve dipendere dal tipo di dolore accusato dal paziente (nocicettivo, neuropatico, nociplastico). In tale review gli anti-infiammatori non steroidei vengono abbinati solo a un dolore nocicettivo mentre gli oppioidi sia al nocicettivo in prima linea che al neuropatico in seconda linea. Andando nel dettaglio gli oppioidi sono estremamente appropriati per il dolore nocicettivo, poi sono abbastanza appropriati nel dolore infiammatorio e neuropatico, mentre nel dolore nociplastico come da cefalea, dolore pelvico cronico, da malattie infiammatorie croniche intestinali non sono consigliabili perché poco efficaci. È ovvio che essendo una terapia a lungo termine quella con gli oppiacei è associata ad effetti collaterali come il rischio di tolleranza, possibile impatto sul sistema immunitario (morfina e fentanyl) e cambiamenti endocrini ed ormonali.
Conclusioni
In conclusione, gli oppiacei sono farmaci molto importanti nel controllo di alcune forme di dolore cronico. È fondamentale stabilire il dosaggio corretto, la durata della terapia, il tipo di oppioide da utilizzare e la formulazione (long acting, short-acting) perché a questa classe di farmaci appartengono molecole diverse con caratteristiche differenti che rendono ragione dell’efficacia sulle varie tipologie di dolore e della tollerabilità. Ci sono oppioidi come morfina e fentanyl che hanno un carico forte sul recettore MOR mentre questo carico è inferiore con buprenorfina e tapentadolo. Questo non vuole dire che sono meno potenti ma hanno meno attività sul recettore e quindi producono meno effetti collaterali. Le formulazioni migliori sono i long acting che vanno assunte ad orario prefissato, mentre le short acting vanno usate nelle fasi di titolazione, nelle riacutizzazioni o nei pazienti con comorbidità, ad esempio, in chi il long acting rischia di accumularsi oppure nel dolore intenso da cancro (fentanyl). Rimane sempre il concetto della slow medicine quindi della lenta escalation del farmaco per non incappare in tolleranza. Gli oppiacei vanno usati ma con un atteggiamento delle tre T: titolazione, sartorializzazione, mantenimento o ridimensionamento del dosaggio; inoltre, il futuro è la tipizzazione del profilo sensoriale che porterà a profilare al meglio il farmaco per lo specifico paziente.
Reumatologia dal web - Tratto da pharmastar.it - di Emilia Vaccaro -Gennaio 2024